Vincenzo

VINCENZO PAPARELLI

Chi vive combatte, chi è morto riposa…
…sui defunti non si osa!

paparelli
28 ottobre 1979, Roma-Lazio, una stracittadina che nelle ultime occasioni aveva già fatto registrare allarmanti segnali di alta tensione tra gli opposti schieramenti. […] Le opposte fazioni si scontrano passando per la tribuna Tevere, con le forze dell’ordine a rinforzare i punti più caldi, e quando tutto sembra tornare alla calma… arriva il dramma!
Dalla Sud una scia nera sibillante parte nei pressi dello striscione “Club Somalia” verso la Curva Nord, ma la traiettoria cambiata dal vento fa slittare il mortaio sopra il tabellone. Poi un altro “fischio”. Parabola diversa. Va fuori lo stesso. Infine un terzo, sempre un razzo antigrandine. Questa volta con traiettoria tesa, senza parabola. Fa un percorso di 150/160 metri nell’aria… “Ho visto arrivare il razzo dalla Sud con la scia nera, lunghissima, filava veloce, credevo che andasse in alto come gli altri, ma all’improvviso è arrivato verso di noi. Istintivamente mi sono scanzato e in quell’istante m’è arrivato del sangue in faccia“, racconta rabbrividito un testimone dell’atroce domenica, quando un razzo va ad infilarsi proprio nella testa di un tifoso della Curva Nord. “Quell’uomo aveva un panino tra le mani e lo stava mangiando; poi la moglie ha cominciato a urlare, e lui, rosso di sangue, cominciò a rotolarsi mentre tutti scappavano“. I primi a soccorrerlo sono dei medici: “Quel razzo era entrato nell’occhio sinistro dell’uomo. Metà razzo gli fu tolto da un ragazzone. Pensate che dalla testa continuava ad uscirgli il fumo, una scena orribile“. Sulle verdi panchine ora macchiate di rosso sangue s’odono per un attimo solo le strazianti grida di una donna sconvolta: “No, non morire, non puoi morire, abbiamo due figli!“, è la moglie dell’uomo. “Corsi subito nella parte alta della curva dove la gente s’agitava freneticamente, andai verso quell’uomo, vidi il razzo nel suo occhio e lo tolsi nella speranza di salvarlo: s’era conficcato proprio dentro la testa. Non dimenticherò mai di che colore diventò la mia camicetta. Uno spettacolo assurdo, straziante… non si può morire così!” Arriva l’urlo lacerante di una sirena. La corsa al Santo Spirito. Un inutile battaglia contro il tempo, per un responso scritto sul registro dell’ospedale: quell’uomo arrivato dallo stadio è registrato con il numero 6220, l’atto di una fredda fase burocratica che gli sancisce la morte dinnanzi alla legge. Sono le 13.45 quando la prima fila della gradinata Nord, sopra l’ingresso 57 nell’angolo accanto al passaggio, viene piantonata da 4 carabinieri con elmetto e fucile intenti a proteggere gli addetti che effettuano i rilevamenti sul luogo ove la morte s’è fermata. Quell’uomo si chiamava VINCENZO PAPARELLI, 33 anni, di professione meccanico, abitante a Mazzalupo, vicino Casalotti. Era venuto allo stadio in compagnia della moglie Wanda, ma un razzo per imbarcazioni, gli stronca la vita[…]. Le reti di Zucchini e Pruzzo passano inosservate, anche se la Sud continua ostinata nei suoi “ROMA, ROMA”, mentre la Nord si accanisce persino su un pallone che erroneamente arriva in curva, rigettato in campo squarciato dalla lama di un coltello. Al fischio finale le violenze si riversano per le vie della città[…]. “Ad incitare chi sparò addosso a Paparelli -scrisse il “Il Corriere dello Sport” riportando le testimonianze dei tifosi presenti in Sud- furono in molti. A pochi metri c’era anche un servizio d’ordine con tanto di fascette di riconoscimento legate al braccio, ma nessuno disse niente, anzi tutti l’applaudirono, e tutti hanno visto quel razzo finire tra la gente della Nord. Qualcuno urlava ai Laziali “MORIRETE“, invece altri alzavano bare di cartone, poi quando si seppe che una persona era morta, tutti gridarono a quel ragazzo “ASSASSINO, ASSASSINO” e lui è scappato piangendo”.
testo tratto da “Nobiltà Ultras”

 

paparelli2Mi chiamo Vincenzo Paparelli, e sono morto il 28 ottobre del 1979.
Forse qualcuno si ricorda ancora di me. Ero un uomo di trentatrè anni che un giorno fu ucciso allo stadio Olimpico da un razzo a paracadute di tipo nautico sparato da un tifoso ultrà della Roma. Quando sono stato colpito stavo mangiando un panino.

Mia moglie Wanda cercò di estrarmi quel tubo di ferro dall’occhio sinistro, ma siccome il razzo bruciava ancora, finì per ustionarsi una mano. Il medico che mi ha prestato i primi soccorsi, dichiarò che nemmeno in guerra aveva visto una lesione così grave. Il giorno dopo tutti i giornali mostrarono una fotografia scattata qualche mese prima, che mi ritraeva in un ristorante insieme a mia moglie. Soltanto il quotidiano Il Tempo pubblicò l’immagine di me, riverso per terra, con la faccia insanguinata e l’orbita dell’occhio sinistro vuota.

Sono stato la seconda vittima del tifo calcistico in Italia, la prima era un tifoso della Salernitana che nel 1963 morì in seguito a degli scontri scoppiati in tribuna con dei tifosi del Potenza. Tra le personalità del mondo sportivo il primo ad accorrere all’ospedale Santo Spirito, dove sono giunto ormai morto, è stato il Presidente del Coni Franco Carraro.

Mio cognato quando ha sentito alla radio il mio nome ha pensato a un caso di omonimia. Mio fratello quando ha saputo della disgrazia, ha avuto un forte senso di colpa perché mi aveva prestato la tessera e quel giorno allo stadio al mio posto doveva esserci lui. Mia moglie, che era accanto a me nell’ambulanza, per tutto il tempo mi ha pregato di non morire e mi ha tenuto stretta la mano. Dopo aver sbrigato tutte le formalità in questura e aver ritirato i documenti e i miei oggetti personali, ha avuto una crisi e ha cominciato a urlare. Sulle foto apparse sui giornali i giorni seguenti è ritratta insieme a sua madre che cerca di consolarla e le tiene un braccio sulla spalla. Ha la faccia stanca e scavata, e nei suoi occhi c’è qualcosa di terribile. Il mio nome e quello de i miei familiari sono comparsi sui quotidiani per tutta la settimana dopo l’omicidio e anche quella successiva, ma sempre con minore risalto. Io sono stato definito unanimemente un uomo normale e tranquillo, con un’unica passione, quella per la Lazio.

Alcuni quotidiani hanno sottolineato più volte che avevo un’officina meccanica in società con mio fratello e vivevo in una moderna borgata romana chiamata Mazzalupo. Qualcuno ha scritto che avevo comprato il televisore a colori con le cambiali, e il mio unico lusso era un Bmw di seconda mano che tenevo in garage e lucidavo come uno specchio. Dopo la mia morte, il capitano della Lazio Pino Wilson ha telefonato a mia moglie per porgerle le condoglianze. Anche il sindaco di Roma Petroselli ha telefonato, e si è offerto di pagare le spese del mio funerale e ha messo a disposizione della mia famiglia un assistente sociale. Il giocatore Lionello Manfredonia è andato a far visita ai miei familiari regalando a mio figlio più piccolo la sua maglietta con il numero cinque. Al mio funerale c’era tutta la squadra della Lazio, insieme all’allenatore Bob Lovati e al presidente Lenzini. I giocatori della Roma invece non hanno partecipato perché impegnati con la trasferta di Coppa Italia a Potenza, al loro posto la società ha inviato i ragazzi della Primavera. Alla cerimonia funebre hanno assistito migliaia di persone e per quel giorno è stato proclamato il lutto cittadino.

La Fondazione Luciano Re Cecconi ha devoluto un milione in beneficenza alla mia famiglia. La giunta regionale del Lazio ha stanziato la somma di cinque milioni come segno di solidarietà. La Società Sportiva Roma ha fatto affiggere una targa in Curva Nord per ricordare la mia persona. Mio fratello Angelo ha proposto alle due società romane una partita Lazio-Roma mista cioè con i giocatori laziali e romanisti mescolati nelle due formazioni, ma alla fine non se n’è fatto niente. Per alcuni giorni sono stato oggetto di un acceso dibattito sulla violenza negli stadi. Il sindaco di Roma ha affermato che bisognava meditare su questa tragedia e discuterne in tutti i club sportivi e nelle scuole. Qualcuno ha proposto che fossero installati negli stadi degli impianti di televisione a circuito chiuso per individuare i tifosi violenti. Il capo degli arbitri, Giulio Campanati, ha chiesto l’abolizione della moviola in Tv. Per alcuni mesi sono state prese drastiche misure repressive: è stato proibito l’ingresso allo stadio di aste di bandiera, tamburi e persino di striscioni dai nomi bellicosi, e anche di spillette e toppe che potessero risultare offensive. Il pubblico doveva incitare la propria squadra solo con la voce e con le mani. Il mio nome è stato, a secondo dei casi, inneggiato e sbeffeggiato dai tifosi della Lazio e della Roma Sui muri della città ancora oggi campeggiano scritte che dicono «Paparelli, sarai vendicato», o «Paparelli non ti dimenticheremo», o anche «10, 100, 1000 Paparelli» o ancora, «Paparelli ti sei perso i tempi belli».

In questi ultimi anni i giornali hanno parlato di me, soltanto all’indomani di un nuovo delitto avvenuto allo stadio. Nel 5° anniversario della mia scomparsa, i tifosi mi hanno ricordato prima di una partita con la Cremonese. Sul tartan, all’altezza della Tribuna Tevere hanno spiegato uno striscione con scritto «Vincenzo vive», mentre la curva intonava «28 ottobre Lutto Nazionale». Nel 10° anniversario è stato inaugurato il «Lazio Club Nuovo Monte Spaccato, Vincenzo Paparelli». L’anniversario della mia morte è stato commemorato dai tifosi laziali della Curva Nord per oltre quindici anni, poi da qualche tempo è calato il silenzio. Il torneo di calcio Vincenzo Paparelli è arrivato soltanto alla terza edizione, poi si è fermato per mancanza di finanziamenti. I lavori per le ristrutturazioni dello stadio Olimpico di «Italia ’90» hanno cancellato per sempre le curve di un tempo, e con loro la targa di marmo che mi ricordava. Sul motore di ricerca Yahoo digitando il mio nome e cognome racchiudendolo tra virgolette, il risultato dice sempre «Ignored». Nell’archivio del quotidiano il Messaggero, risulta che l’ultima volta che sono stato nominato è il 5 febbraio del 1995, in occasione di un breve articolo sul mio assassino. Il mio assassino si chiamava Giovanni Fiorillo, aveva diciotto anni ed era un pittore edile disoccupato. Subito dopo l’omicidio ha fatto sparire le sue tracce e si è dato alla latitanza. Qualcuno diceva di averlo avvistato a Pescara, qualcun altro a Brescia, qualcun altro ancora a Frosinone, che chiedeva informazioni per comprare le sigarette. Dopo quattordici mesi di clandestinità, si è costituito. Nel 1987 è stato condannato in Cassazione per omicidio preterintenzionale: sei anni e dieci mesi a lui che aveva lanciato il razzo, quattro anni e sei mesi agli altri due complici che lo avevano aiutato a introdurre nello stadio l’ordigno e a utilizzarlo. Durante quel girovagare per l’Italia e per la Svizzera ha telefonato quasi tutti i giorni a mio fratello Angelo, chiedendo scusa e giurando che non voleva uccidere quel giorno allo stadio. Era un ragazzo come tanti, abitava a Piazza Vittorio, era patito della Roma. Sua madre lavorava al mercato, suo padre aggiustatore meccanico. Era gente del popolo, come me. L’articolo sul giornale diceva che Giovanni Fiorillo è morto il 24 marzo del 1993: forse per overdose, forse consumato da un brutto male. Mio fratello Angelo l’ha perdonato, così come l’hanno perdonato mia moglie e anche i miei figli. Una cosa è certa, quel ragazzo è stato sfortunato, così come lo sono stato io. Mi chiamavo Vincenzo Paparelli. Sono morto il 28 ottobre del 1979. Forse qualcuno si ricorda ancora di me.

Un racconto di Massimiliano Governi (Gazzetta dello Sport)

Il 28 ottobre 2002, tramite una raccolta di firme proposta dagli Irriducibili, Vincenzo Paparelli e tutto il popolo biancoceleste, ottennero il giusto riconoscimento, con l’esposizione di una targa in ricordo del tifoso ucciso in Curva Nord.

ordinepapa

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